Una ex studentessa delle scuole Manzoni di Bologna mi ha chiesto alcune foto per illustrare una biografia
(di prossima pubblicazione) sulla fondatrice "Elide Malvasi".
Ne ho approfittato per scannerizzarne alcune e per dedicare una pagina di questo Sito sia al Collegio di via Odofredo sia alle Scuole di via Santo Stefano a Bologna.

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E' capitato che autori di libri interessanti abbiano chiesto ad Enzio Strada
di scrivere prefazioni alle loro opere.
Eccone tre, trascritte qui di seguito.

Marcello Minghetti (Marcelo d'Casantén) ha pubblicato "E Vangeli d'Nona Teresa" (ed.An.\Valberti).



Tramite "La Voce del Senio di Alfonsine ( Ravenna) ho potuto conoscere in anteprima il dattiloscritto dell'autore che io non conoscevo.
Rimasto piacevolmente impressionato, mi è stato chiesto di esprimere il mio "parere".
Non pensavo che esso fosse tanto apprezzato da trasformarsi nella "Presentazione" del libro.

Eccola.

"E vangeli d'nona Teresa"
di Marcelo d' Casantèn
(Marcello Minghetti).

In passato altri romagnoli hanno tradotto chi un Vangelo, chi un altro.
In tempi recenti, Angelo Tassinari si è cimentato col Vangelo "sgònd Lòca"; Don Carlo Gatti con quello di "San Merch" a cui ha fatto seguito la traduzione degli Atti degli Apostoli ("la prema Cisa").

Con tutto il rispetto per i due suddetti Autori, a parere di chi scrive, il Vangelo di "nona Teresa" è tutt'altra cosa: per la sua freschezza, la sua originalità e, soprattutto, per il linguaggio tanto SCHIETTO da sembrare a volte dissacrante al limite della volgarità.
Solo chi ha dimestichezza coi Romagnoli e con il loro dialetto può, invece, cogliere in esso il massimo della tenerezza e dell'affetto . Un po' come chi - dando pacche sulle spalle all'amico che non vede da tanto - lo saluta così: "Mo c'ut venia un chencar, un colp sèc…" (che ti venga un cancro, un colpo apoplettico-ictus...).

Nonna Teresa inizia dalla Annunciazione che l'Angelo del Signore fa ad una ragazza, anzi ad una "bambina" "(babèna").
Ma quella Bambina non è una ebrea, non è una palestinese: è una romagnola che reagisce con un "Di' so tabàc, a sognat o a sit matt…me a deg d'zavai…"(di' su , ragazzo: sogni o sei matto? ..io dico che tu vaneggi).
Poi sappiamo come andò a finire: la ragazza accettò la maternità che "nona Teresa" racconta con una solidarietà infinita: "…av less immaziné cla pora mama coss cla pinsess avé da parturì sora la paja ad dentr'una capàna"!
Il Bambino nasce e gli Angeli svolazzano felici gridando e svegliando tutti per annunciare la Grande Notizia: "Svigìv, svigìv, burdell…".
In particolare essi portano l'Annuncio della Nascita ai "purètt" , a coloro, cioè, che hanno "una fam da no stè drett"(i poveretti che hanno una fame da non stare più dritti).
Nonna Teresa gode nello strapazzare i due uomini più potenti di allora: Erode e lo stesso imperatore Ottaviano Augusto.
Al primo dà del "balusa" perché i Magi si guardano bene dall'andare a riferirgli dove si trovi il Bambino Gesù.
Il secondo è preso in giro addirittura da San Giuseppe che non denuncia il Bambino al censimento: "…mo e piò freghé e fo l'imperatòr parchè Jusèf un denunziè e Babì e… che por quajòmbar l'armasté futì" (Marcelo d' Casantèn traduce "freghé e futì" con "imbrogliato", e "quajòmbar" con "minchione", ma il lettore romagnolo sa che il significato di quelle parole è più…forte).
Nonna Teresa passa, poi, in rassegna vari episodi della vita di Cristo: episodi che sembrano aver luogo qui in Romagna perché i protagonisti si comportano e parlano come " di Rumagnùl spudé".
Marta e Maria, ad esempio, di fronte al fratello Lazzaro a cui ha preso un "zabadaj"(uno svenimento) , reagiscono come le nostre brave azdòre romagnole:"Svègiat, mo s'et fatt?...t'an vrè miga murì, di so a sit matt…, s't'as vè manc te, armasté do por sgraziedi…"(Svegliati, cos'hai fatto?...non penserai mica di morire, di' su, sei matto? Se ci vieni meno tu, noi restiamo due povere disgraziate).
Poi quando Lazzaro viene risuscitato, Marta, ("la piò braghira"), prende in mano la situazione: "la pinsé sobit d' preparé dis ov d'zamblòn e un pignatòn d'caplètt…l'andé in cantena a tu dis fièsch d'sasvers e pu quatorg salèm e du parsòtt…e pu l'andé da i vsen e l'ai ciamé tott…."( pensò subito di preparare dieci uova di ciambella ed un pentolone di cappelletti…, andò in cantina a prendere dieci fiaschi di sangiovese e poi quattordici salami e due prosciutti e poi andò dai vicini e li chiamò tutti…).

Dicevamo la schiettezza del linguaggio.
Chi se non un "romagnolaccio" può rivolgersi a se stesso dicendo: " a srò pu un por cazàzz!" (traduzione edulcorata: "sarò poi un povero sciocco"). Succede nell'episodio del Figliol Prodigo: "e fiòl strusciòn".
E a chi se non a Nonna Teresa poteva venire in mente di tradurre il Ricco Epulone con l'espressione: "E bdocc arfatt" (il pidocchio rifatto)?

Anche la libera traduzione del Padre Nostro (e mi Signòr) è tutto un programma.
Il "non ci indurre in tentazione" viene "romagnolizzato" .
La tentazione? No, non è " che sia propi un gran turmènt"; anzi, "guardé 'na bela sposa quand ch'la passa, a direb quesi ch'lè un divertiment", purchè poi non si esageri e non si diventi una "bardassa": come dire un "vecchio bavoso".

Il racconto della Passione e Morte di Gesù comincia col tradimento di Giuda.
Per la romagnola Nonna Teresa , il "voltagabbana" è quanto di più esecrabile ci sia. Se è uno dei tuoi che ti rovina, allora "av dègh la verité, l'è mej murì piò d'savé che un amig ut vò tradì"(vi dico la verità: è meglio morire che sapere che un amico ti vuol tradire).
Nelle ultime parole di Cristo sulla Croce c'è tutta la compassione della donna romagnola, rude e spicciativa sì, ma con un cuore grande così: " Mama, mama, ad fadiga ch'lè a murì, quant'ela incora longa st'agunì?" (mamma, mamma, quale grande fatica è morire, quant'è ancora lunga questa agonia?).

Marcelo d' Casantén termina esprimendo tutto il bene e la riconoscenza che lui, nipote fatto uomo, sente nei confronti della Nonna:

"questa la fo la scola dla mi nona
che seza cnossar livar né scritura
l'am scrivé dentr'è cor la su cultura"

(questa fu la scuola di mia nonna
che senza conoscere libro né scrittura
impresse dentro il mio cuore la sua cultura).

Enzio Strada



E' uscito un libro di Poesie (in romagnolo) di

Hedda Forlivesi.

Il titolo è "Fiur d' gatapòzla" (fiori di camomilla) edizione Walberti.
Il sottotitolo è: "100 poesie d'amore per la libertà, l'uomo e la natura".

Il pittore alfonsinese Giovanni Morelli ha "interpretato"col pennello le Poesie di Hedda, mentre Enzio Strada ha curato la Prefazione.

Trascrivo qui di seguito la PREFAZIONE perchè essa può dare un'idea del "SENTIRE" di Hedda e della sua capacità di trasmettere EMOZIONI.

"Quando Hedda Forlivesi mi ha chiesto "due righe" per questa sua raccolta di poesie, le ho detto: "Non ne hai bisogno, perché, di presentazioni, ne possiedi già una…: quella che ti scrisse, già trent'anni fa, Don Francesco Fuschini…".
Ricordavo infatti il giudizio che su di lei aveva espresso il grande scrittore: un giudizio sincero perché veniva da un competente e da un…prete.
"Lei ha l'anima della poesia. Sente i pensieri, vibra con la sera . Le sue poesie mi vanno al cuore".
Il lettore troverà riprodotta qui di seguito la lettera di Don Fuschini e potrà giudicare da sé se io esagero.
L'autore di indimenticabili libri come "L'ultimo anarchico", "Parole poverette", "Mea culpa", "Porto Franco"….le aveva dato quasi un ordine: "Scriva…: ha un mondo da comunicare!".
Hedda l'ha fatto e questa raccolta di poesie ne è una prova.
Ora "la Forlivesi" insiste perché io esprima il mio parere "spassionato" su questa raccolta.
Obbedisco.

Il mondo che Hedda ci comunica non è solo il suo: è il nostro mondo, il mondo di tutti noi.
In queste composizioni non c'è solo la sua storia, ma la nostra storia perché Hedda "racconta" la VITA.
L'autrice ha questo "dono" (altra parola di Fuschini): riesce a cogliere il SENTIRE di ognuno, a renderlo VERO,a metterlo a disposizione di ciascuno.

Il sottotitolo del libro è "L'Amore per la Libertà, l'Uomo, la Natura".
La prima (La Libertà) fa capolino in ogni composizione da cui traspare il desiderio insopprimibile di osservare, scrutare, conoscere, amare il mondo e tutto ciò che sta sotto il cielo.
Una libertà che non è data una volta per sempre, ma che va conquistata e difesa giorno per giorno perché essa - scrive Hedda - "la n' gosta gnit, mo t'a la pègh piò chera dl''or…incu" - non costa niente, ma che paghi più cara dell'oro, oggi.

Il secondo (l'Uomo) è ovviamente il protagonista principale. Egli, ancor giovanissimo, lascia trepidante la sicurezza del nido per spiccare il volo perché "la vòja d' vulè, l'an sta int'la pèl"- la voglia di volare mi esce dalla pelle.
Purtroppo, assai presto, subentra la consapevolezza che l'incanto, i momenti buoni durano poco perché è inevitabile che si vada a "sbattere" contro gli ostacoli, le difficoltà del "vivere".
Ma non si può più ritornare nel nido in cui ormai "ui loza la zveta"(si è installata la civetta: animale che nell'immaginario collettivo non porta bene, ma è foriero di sventura).
Per fortuna ci sono attimi, sprazzi di luce, in cui l'Amore squarcia il cielo, allontana la notte e mette le ali al cuore: "L'è sté cla sera c'at rubé e prem bés e ca t'ò det: Giurdana com t'am piis….e te t'am e' det: Neca me at voi ben…"- E' stata quella sera che ti ho rubato il primo bacio e che ti ho detto: Giordana, come mi piaci… e tu mi hai detto: Anch'io ti voglio bene.
L'Amore come goccia che può spegnere la sete di una vita: "una gozla d'amòr l'arsòra la sé d'una vita"
Troppo spesso e troppo presto, però, il cielo si chiude, la luce si spegne, il buio della notte avanza ("…e' pu us' è mòrt la lus"), non si hanno più ali per scappare lontano (s'avés a gl'él e pu… vulè luntàn…luntan..luntan…), non si ha più, dentro di sé, alcuna armonia: "am sit un viulén c'u j màca una còrda"- mi sento come un violino a cui manca una corda.

Che fare allora? Dove andare?
Non c'è più tempo per ricominciare da capo: "E témp us é sbrislè! Um' e avanz una mané ad gnit..…tòt sparì, ignacvél, spargujè cun e vènt…." - il tempo è andato in briciole! Mi è rimasto una manciata di nulla, ….tutto sparito, sparso al vento…
Eppure quel "niente" , quel "nulla", quel poco che resta bisogna fare attenzione per non farselo portar via: "a camèn ins'la punta di pì, che la vita l'an sènta c'a j so"- cammino sulla punta dei piedi perché la vita non s'accorga che esisto.

Si arriva alla terza presenza: la Natura.
Una natura, quella di Hedda, non chiassosa, non sconvolgente, non "matrigna" come quella di un Leopardi.
No.
La natura, qui, è "incarnata", rappresentata da animali piccoli e comuni (il pettirosso, la tortora, il merlo, il passerotto…), da fiori piccoli e comuni (la gatapòzla-camomilla, la viola, la rosa, la margherita, il gelsomino, la bocca di leone…).
Non manca la natura "grande" come le montagne, la luna, il cielo, il vento…"sentiti" però come presenze amiche che partecipano al nostro umano andare :"muntàgn, amighi di silénzi d'la nòt…"; "…e vent um 'a spinlé ados la su caréza…"; "e' zil us' è inznuciè….."; - il cielo si è inginocchiato…- , "l'oc…dla luna e' trema.." - l'occhio della luna trema.

…Poi ci sono le onde, l'acqua, il mare: elementi coi quali l'autrice ha una particolare predilezione: un rapporto, un dialogo personale: "L'onda l'am sòpia adèsi int'agl'jurecc: E mèr l'è bon…l'è bon …e mèr…"- l'onda mi sussurra adagio negli orecchi: Il mare è buono…è buono il mare…
Sì, è buono il mare perché sa custodire i pensieri più intimi ("e mer l'a pischè i mi pinsir ch'in ariva mai a riva"). Hedda sente addirittura sotto la pelle l'anima del mare: "…am sint sòta la pèl l'ànma de mèr".

Vien da pensare all'autore de "L'Infinito" ed all'ultimo verso del sonetto:"…il naufragar m'è dolce in questo mare".
Con una differenza non da poco: nonostante i tanti "parchè…parchè…parché?", nonostante lo stridore ("la ziréla cla fés-cia e sla sgagnòla ins la ròda de pòz"…- la carrucola che fischia e si lamenta sopra la ruota del pozzo), nonostante l'arsura ("tòt chi vés chi ziga par la sé" - tutti quei vasi che piangono per la sete), nonostante il "nodo in gola (e' magòn")…, ecco, resta insopprimibile la voglia del contatto umano per condividere la sorte comune a tutti: "um ciapa una vòya d'avdev, c'um fa e gambaraz nenc e' còr." - mi prende un desiderio di vedervi che non mi sorregge il cuore.
C'è solo una "cosa" di cui aver paura: l'isolamento, il silenzio, l'abbandono: "l'òs l'è srè…l'è mòta la gièra de curtil e gnànc un pas cl'a fèga piò canté.." - la porta è chiusa…; è muta la ghiaia del cortile, nessuno più che la faccia cantare.
Per sfuggire all'angoscia provocata dalla solitudine, c'è solo un modo: non lasciarsi prendere dall'orgoglio, dal voler fare sempre e tutto da sé.
Non si protegge il proprio cuore tenendo le braccia conserte, strette, incrociate, sul petto, ma sciogliendole, aprendole, e, se necessario, tenderle verso "l'altro" e magari pure verso " l'ALTO".
Non si deve neanche temere di prorompere in un grido di aiuto: "Dam una man, no stam abanduné …insegnum che l'è bél prinsena un zil nuvlé"- dammi una mano, non abbandonarmi…Insegnami che è bello anche un cielo con le nuvole.
Mai perdere la speranza!.
Ci sarà sempre "Qualcuno" pronto a rispondere al nostro grido di aiuto: "a t'ò pòrt do gòz d'aqva par la sé dè tu cor" - ti ho portato due gocce d'acqua per la sete del tuo cuore.

Grazie, Hedda.

 

Pietro Baravelli : "Alle soglie dell'anima", ed.Ponte Vecchio, 2018


Pietro ha insistito perchè leggessi le sue composizioni ed esprimessi il mio parere.
Io l'ho fatto volentieri.
Pietro ha voluto utilizzarlo come Prefazione al suo libro.
Ne sono onorato.
Qui sotto la trascrizione:

"Sembra quasi impossibile che al termine della lettura di ogni composizione di Pietro Baravelli si desideri rimanere in silenzio, magari ad occhi chiusi per prolungarne l'emozione.
Anche poesie di tre o quattro versi appena sono capaci di sprigionare luce come fa il lampo improvviso che squarcia il buio della notte.
Pietro non ha certezze assolute da trasmettere se non quelle ancorate al suo mondo: i campi, la fatica, l'alternarsi delle stagioni, l'osservazione attenta della natura, soprattutto nelle sue espressioni più minute: la formica, "il briciolo di vita di un pettirosso", una margherita, "un cespo di papaveri", un olmo…
Egli nutre dentro di sé un desiderio imperioso, una sete struggente di INFINITO perché intuisce, sente, è certo che "ci sono luoghi oltre l'orizzonte del tempo e dello spazio, luoghi dell'anima e della mente dove, nel silenzio, puoi ascoltare l'universo palpitare".
Un universo che palpita, sì, ma di cui, purtroppo l'uomo oggi non sembra avvertire la sofferenza, il fiatone, lo sfregio, l'indifferenza: "…se fossi COLUI che non posso nominare, aggiungerei un nuovo comandamento: non sciupare…".
Pietro, lui così mite, quasi prorompe in un grido che è la sua professione di fede: "Ho amato la vita e l'amo ancora"; poi, ecco, amarezza e nostalgia spuntano immediate come il rimpianto struggente di un mondo che non c'è più: "…che tristezza la primavera senza aquiloni" soppiantati dal "frastuono dei trattori, dal sibilo sinistro degli aerei che lacerano il silenzio dei campi".
Subentra la consapevolezza del destino ineluttabile che attende ogni uomo: "Io me ne andrò dove tutti, prima o poi, dobbiamo andare. In silenzio con i miei sogni, i miei ricordi, la mia malinconia".
Che resta, allora?
Pietro ha un sogno:
"Quando i contadini semineranno le parole e i poeti coltiveranno il frumento,
forse torneranno le lucciole a lenire il mio tormento".
Baravelli (una vita intera trascorsa nella sua amata Pisignano) ha fatto davvero esperienza dell'uno (contadino) e dell'altro (poeta già con una raccolta dal titolo significativo "Ansia d'infinito", edita nel 2006).
Ha seminato parole, ha coltivato frumento.
Il ritorno delle lucciole (del tutto scomparse nel nostro mondo cervese) è, dunque, solo un sogno?
Mai disperare!
Anche il profeta Isaia ha sognato un futuro in cui gli uomini avrebbero trasformato "le loro spade in vomeri e le loro lance in falci" per vivere tutti finalmente in pace".

Enzio Strada

(
Novembre 2018)


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